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Negli ultimi decenni si sta assistendo alla frammentazione dei processi produttivi, volta sempre più a comprimere i costi e a destrutturare l’identità dei lavoratori.

In Italia tra i settori più investiti da questi fenomeni vi è quello dell’edilizia, dove spesso l’imprenditore non ha più lavoratori manuali tra i suoi dipendenti, ma si avvale della “collaborazione di artigiani con partita iva” che posano i pavimenti, tirano su muri, assemblano l’impiantistica: si maschera così un lavoro dipendente formalmente da lavoro autonomo, risparmiando non solo sui contributi, ma su tutti i costi indiretti, “fatturando” la sola prestazione.

La precarietà di questi cosiddetti artigiani, senza alcun diritto, appare evidente e sembrerebbe del tutto estranea alle modalità di lavoro nel settore del credito, nonostante gli assalti all’unicità dell’area contrattuale, “Banca 5” o le nuove figure professionali per metà lavoro dipendente e per metà lavoro autonomo presenti in Intesa Sanpaolo (quelle che la “vox populi” chiama “minotauri”) o ancora esperienze come “Intesa Sanpaolo4value” che pareva giustificarsi per segmenti ad alto valore aggiunto.

Non è più così.

In questi giorni nei nostri territori, nelle varie filiali, si stanno presentando dei “team”, composti soprattutto di donne con titolo di studio adeguato, che fanno parte di “INTESA SANPAOLO AGENTS 4 YOU”.

Queste lavoratrici sono dotate di partita Iva come agenti monomandatari (solo prodotti Intesa Sanpaolo) la cui mission, ad ora, è girare sul territorio per l’apertura di conti correnti che andranno nel budget della filiale di insediamento, così come i prodotti assicurativi o finanziari (no mutui) collegati al rapporto; non hanno autonomia nella verifica dei nominativi (ecam), per la quale si appoggiano alle filiali e sulle quali rimane anche la delicata incombenza dell’adeguata verifica (gianos).

In sostanza, aprono conti correnti e ricevono un ritorno economico per ogni rapporto aperto, che aumenta ove vi siano prodotti collegati; cioè quello che fino ad oggi è fatto ancora da diversi bancari alle dipendenze della banca, può essere fatto da lavoratori autonomi, fuori della filiera produttiva del credito.

La cosa è ben diversa da “Banca 5” dove il gestore dell’esercizio commerciale che aderisce alla convenzione è certamente un lavoratore autonomo, ma lo è in termini reali, essendo il proprietario dell’esercizio stesso.

Questa la nuda descrizione del fatto, ma forse è importante descrivere anche come si è presentato il team, la parte umana.

La team leader espone, con padronanza di linguaggio, quanto la sua squadra è chiamata a fare, “valorizzando” l’assoluta flessibilità di prestazione, svincolata da qualsiasi orario contrattuale, l’ovvia disponibilità anche al sabato, la possibilità di girare il territorio in lungo e in largo, il vantaggio per i punti operativi che non devono “perdere tempo” ad aprire il rapporto, le ricadute positive sul budget di filiale;

tutto ciò mentre da occhi, viso, e postura emerge lo smarrimento, il disagio, la precarietà del lavoro insieme alla necessità di trovare un’occupazione pur che sia, mista all’illusione di essere comunque in una grande e protettiva azienda, nella speranza – coltivata in fondo all’anima – di farvi parte un giorno a pieno titolo.

Se si assistite a una simile presentazione e si è dotati di una normale, non eccessiva, sensibilità non si sfugge ad una stretta al cuore e un moto di rabbia.

La stretta al cuore è dettata da uno spontaneo sentimento di solidarietà: che fine faranno questi ragazzi? In questo contesto, l’idea di un percorso professionale che preveda una formazione iniziale, un periodo dedicato all’inserimento lavorativo e il successivo conseguimento di una posizione stabile, che consenta infine di realizzarsi anche nella vita privata, diventa irrealistico, dove la meta finale non può che essere il “deserto demografico”

La rabbia sfocia in vari rivoli:

  • verso una cultura generale, un pensiero divenuto senso comune dove la precarietà è non solo dovuta, ma è bella, è realizzante della giusta dimensione di vita, dove si è “imprenditori di sé stessi”
  • verso un’illusione che contribuiamo a creare nei nostri figli, quando li convinciamo che il pesante sacrificio dello studio oggi è propedeutico alla certezza domani
  • verso una classe dirigente (si fa per dire) che consente il consumarsi del tempo (che nessuno può restituire) e il logoramento di tante vite giovani nell’angoscia dell’incertezza
  • verso un settore produttivo (il credito) che svaluta costantemente il lavoro umano, pensando di renderlo fungibile con strumenti tecnologici
  • verso un’azienda che ipocritamente parla di responsabilità sociale e che invece che creare buona e stabile occupazione approfitta anch’essa – come qualsiasi padrone delle ferriere – del bisogno, della necessità di tanti giovani.

Il finale è semplice da pronosticare: come in un cantiere edile ci sono ormai tante partite iva, nei saloni degli istituti di credito (o a casa in smart working) ci saranno tanti lavoratori fintamente autonomi, soli, disperati nel loro isolamento, volando verso “quota ottomila”, nel luogo più felice dove lavorare.

Coordinatori Area Napoli e Provincia – FISAC CGIL

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