Ieri la copertina di Dimartedì ci (noi della CGIL) ha chiamati in causa. Impietosa e irresistibile. Le critiche sono sempre importanti perché costringono a farsi delle domande. E quindi a cercare le risposte. Ma quelle giuste possibilmente…
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http://youtu.be/_ZC126Y86p8?t=8m12s
maurizio crozza vai a lavorare poi parla di sindacato, ma poi poi poi
E credo che non sia l’unico (per fortuna, dico) a pensarla così!
Satira. Bisogna accettarla. Anche quando apparentemente contro. Una cosa è certa: la CGIL nei confronti dei precari dovrà, sicuramente, prendere una posizione netta di tutela e rivendicazione. Di lotta. Cosa che fino ad oggi non ha fatto.
E’ vero: ci sono questioni che sono aperte fino dagli anni ’70. Ad esempio la questione della politica dei redditi, oppure la questione della dignità del lavoro e dei lavoratori. Viene alla memoria la canzone ”Contessa”, dove si dice che ” han fatto lo sciopero, quei quattro ignoranti, dicevano, pensi, di esser sfruttati …”: ah, già, ma erano gli anni ’60 ! Oggi è tutta un’altra musica!
Purtroppo ha ragione, la Camusso soprattutto non lavorando ormai da anni non credo sappia nemmeno più come si fa!!!!
P.s. iscritto CGIL con orgoglio, ma questa dirigenza mestierante deve andare in pensione!!!!! magari esodata!!!!
Da sindacalista Fisac Cgil che fa con passione il proprio lavoro e che ama la Cgil dico che a me ha fatto ridere e che la satira fa sempre bene perché tiene svegli e fa pensare a come migliorarsi. dico anche che la satira si fa di norma sui potenti, dunque ricordiamoci che in questo momento il sindacato e i lavoratori non sono tali…..
Ricordati anche , Elena Cherubini, che il Sindacato è “Pagato” dai lavoratori e gli accordi vanno a firmarli i “Rappresentanti sindacali” ed il “popolo”, sopratutto quello bancario, si è stufato di vedersi ratificare accordi alla “meno” viste le “difficili condizioni” delle banche, salvo poi leggersi i comunicati stampa ,come quello di Intesa, che sprizzano dati esaltanti e soldi a go go nelle tasche dei soliti noti!!
Non ci ho trovato nulla per cui ridere e trovo anche fuori luogo questa polemica per cui fare il dirigente sindacale significhi non lavorare. Se la modernità è facilitare ulteriormente i licenziamenti dei giovani e cancellare diritti fondamentali solo perché sono stati conquistati negli anni 70, rispondo che i diritti non sono come i liquidi nei vasi comunicanti: abbassandoli ai lavoratori cosiddetti garantiti, non li si alzano ai milioni di precari. Detto tutto ciò, l’alternativa non è l’immobilità e qui secondo la critica va portata ad un certo atteggiamento e approccio troppo difensivo, troppo “di rimessa” da parte del sindacato italiano negli ultimi anni. Innovare secondo me significa raccogliere le sfide della realtà economica e sociale, misurarsi con queste sfide e proporre proprie soluzioni, significa cambiare non per rincorrere una finta modernità peraltro molto ideologica (il mercato unico regolatore), ma per riuscire ad essere noi come sindacato ad imporre l’agenda…un po’ come si riusciva a fare negli anni 70. Quanto ai giovani: c’è bisogno di loro nel sindacato e, Fornero permettendo, è giusto che i dirigenti che possono farlo vadno in pensione. Non mi pare però che ci siano tutti questi giovani che bussano alle porte delle Camere del Lavoro e che spingono per entrare e fare attività sindacale, non mi pare ci siano e questo è uno dei problemi più gravi ed urgenti di cui il sindacato si deve far carico, ma di cui, secondo me, non porta la responsabilità fondamentale, il precariato non nasce dalla contrattazione sindacale…l’ho fatta già troppo lunga, sono temi su cui discutere dal vivo, più che davanti a un pc
A me ha fatto ridere. In modo amaro, certo. Ed è stata l’occasione (non certo l’unica e nemmeno la più importante) per riflettere sul mio ruolo di sindacalista, su cosa significhino davvero – nel dizionario del sindacato – parole come “difesa”, “conquista”, “diritti”, “universalità”, “cambiamento”, “progresso”, “ideologia”.
Il ragionamento è lungo e complesso, ma dovendolo tagliare con l’accetta non credo che sia possibile continuare a sostenere:
– che i diritti o sono quelli che conosciamo o non sono,
– che i diritti non sono rimodulabili e travasabili,
– che i giovani non bussano alle porte del Sindacato e quindi, in fondo, che ci possiamo fare?,
– che se non ci bussano sarà per un mucchio di buoni motivi, ma nessuno di questi è ascrivibile al Sindacato,
– che la precarietà è un male, certo, ma anche questa non è ascrivibile al Sindacato
– che se il rinnovamento in Sindacato non si può fare è colpa della Fornero
– che la soluzione è riproporre quello che si faceva negli anni ’70.
Io credo che ciascuna di queste affermazioni contenga elementi di verità come anche di comodo autogiustificazionismo. Tuttavia, se si vuole avere un ruolo propositivo e di soggetto che governa il cambiamento invece di subirlo, non credo che ci possiamo accontentare di quanto c’è di vero nelle nostre convinzioni, ma dobbiamo cercare e concentrarci su quanto c’è di sbagliato e di autoindulgente. Per farci i conti e (ri)partire con nuovo slancio e orientamento non dico al futuro, ma almeno al presente.
Per finire, su almeno uno di questi temi credo di avere le idee abbastanza chiare: i giovani che non bussano alle nostre porte. In linea di massima questo accade per nostra precisa responsabilità, perché non sappiamo né parlare con loro (parlare “con”, non parlare “a”: quindi ascoltarli, prima di tutto), né rappresentarli. E hai voglia di dire che non siamo noi a sbagliare, che sono loro a non capire. Quand’anche fosse così (e non lo credo) resterebbe comunque il fatto che siamo noi ad essere sbagliati per loro…
Poiché comunque, nonostante tutto (nonostante noi), alcuni giovani bussano alle nostre porte, e in alcuni casi riescono a prendersi uno spazio, ad assumersi le loro responsabilità, e perfino a dimostrare i loro talenti (se ne hanno) e fare i conti con i loro errori (a cui nessuno potrà mai sottrarsi), e poiché alcuni di questi li conosco personalmente, li invito caldamente a farsi sentire anche qui, e dire che cosa ne pensano, di tutto ciò…
Quindi è necessaria una “spolverata” dei più vetusti dirigenti sindacali ? Bene, posso essere d’accordo. I giovani sono una risorsa? Certamente si, anche nel sindacato. Ma come facciamo a coniugare queste due realtà? Il lavoro del sindacalista NON si impara dietro un PC o leggendo un volantino sindacale. Si impara sul campo, la dove si svolge l’attività: ai tavoli Aziende-sindacato, nelle contrattazioni sui luoghi di lavoro, ecc. Ma se non si fa così, una volta “rottamati” i vecchi dirigenti, quelli con maggiore (e non necessariamente, migliore) esperienza, con chi li sostituiamo ? Allora credo che, prima di tutto, sia necessario VOLERE il ricambio generazionale, con i fatti però. I proclami lasciamoli ad altri…
accolgo l’invito di paolo barrera.
come sempre le generalizzazioni hanno ampi margini di errori.
io, come penso mille altri sindacalisti di base, ho purtroppo un problema di tempi per gestire l’attivita’ sindacale e le legittime richieste di chi si riferisce al sindacato, tutte fondate ma con priorità diverse per tipo e gravità di questioni proposte (premesso che tutti riteniamo sempre le questioni che ci riguardano “ le Priorità”) l’attività lavorativa e le mie questioni personali e familiari (queste comuni a tutti gli essere umani sindacalisti e non).
il discorso è complesso ma merita di essere approfondito perché ne va della sopravvivenza del sindacato. ripeto è necessario distinguere perché altrimenti con le generalizzazioni “buttiamo il bambino con l’acqua sporca” e non risolviamo i problemi!
ad es. il servizio di ieri sera della trasmissione “le iene” su presunti benefici pensionistici per sindacalista della scuola di oo.ss. non cgil era legittimo ma trovarmi colleghi che oggi mi additano per benefici che i sindacalisti di base e anche quelli di vertice di settori diversi dalla scuola non hanno mai avuto e neanche potranno mai avere, dopo aver passato la serata a rispondere alle richieste di lavoratori è veramente frustrante e deprimente.
Ps Scusate qualche imprecisione sul tema ma confesso di avere della satira di crozza ho solo echi indiretti perché non ho avuto sinceramente il tempo materiale di ascoltarla
Paolo Barrera, se il tuo commento è da intendere come una risposta alle cose scritte da me, il tuo non è un taglio con l’accetta, è una caricatura ai limiti del travisamento. Partiamo dagli anni Settanta: non ho scritto che dobbiamo fare come allora, ma che allora il sindacato si aprì ai giovani perché era in grado di imporre un’agenda politica e contrattuale, cosa che da molti anni secondo me non riesce a fare (le ragioni sono tante, ma non c’è modo di approfondirle qui). Se oggi non bussano alle porte del sindacato, non è vero che non ci possiamo fare nulla, dobbiamo agire, come ho scritto, il più concretamente possibile per un ricambio generazionale, ma avendo coscienza precisa della materialità del reale e senza velleitarie autocritiche. Non basta “volere”. Tu hai le idee abbastanza chiare e sei sicuro che la nostra precisa responsabilità è che “non sappiamo parlare ai giovani”: può darsi, anzi sicuramente è così…perché invece quando ero giovane io (e forse anche tu) il sindacato sapeva parlare con noi? Ma per piacere! Ti iscrivevi al sindacato, magari ti proponevano di impegnarti, facevi la tua lunga gavetta formativa, sotto la guida politica del dirigente (o dei dirigenti) da cui ti dovevi far guidare e alla fine, se lo meritavi, facevi il tuo percorso, se no te ne tornavi in azienda. Punto. Questo era. Poi potevi anche non avere una guida stretta, ma in quel caso ci voleva veramente tanta determinazione. E non dimentichiamoci mai che tutto questo aveva come pre-condizione la tua rinuncia a potenziali percorsi professionali in azienda (in alcune aziende forse non era del tutto così, nella mia grande azienda ti assicuro che era proprio così) e credo che questo, altro che il saper parlare, sia non da oggi ma da un po’ di anni un problema vero per i giovani nel nostro settore rispetto all’impegno nel sindacato, un problema di cui dovremmo occuparci molto seriamente! Parlo della possibilità, regolata da un accordo collettivo, per un giovane sindacalista di poter decidere liberamente di rientrare in produzione, dopo un periodo di impegno sindacale, senza privilegi ma nemmeno penalizzazioni professionali: è uno strumento concreto di mobilità generazionale che non mi invento io ma che è stato sperimentato con buoni risultati ad esempio in Spagna nel nostro settore. Non rimpiango i tempi della gavetta, non credo nemmeno che il sindacato oggi se li potrebbe permettere, però la passione, l’impegno, il sacrificio per imparare a lavorare duramente, sono tutti elementi, secondo me, tuttora fondamentali e bisogna far di tutto per alimentarli e coltivarli nei giovani, ma sapendo che agibilità e diritti sono quelli che sono oggi e questo è un formidabile ostacolo oggettivo oltre a quelli soggettivi. La metafora dei diritti e dei liquidi nei vasi comunicanti la uso a proposito di chi sostiene che i giovani sono disoccupati o precari per colpa dell’art.18 che protegge gli anziani. Non so che ne pensi tu, io la penso così e lo sosterrò in tutte le sedi possibili. E a proposito della Fornero, non vedo tante alternative:o rientriamo tutti in azienda da una certa età in su, ammesso che siamo ricollocabili e di questi tempi mi pare davvero complicato (ci si può sempre provare), oppure cerchiamo di farci esodare, oppure più modestamente andiamo in pensione nemmeno un minuto dopo la maturazione del diritto ed impieghiamo una parte del tempo che manca a quella maturazione lavorando per il ricambio generazionale. Io sono per farle fino in fondo queste discussioni, proprio perché come scrive Alberto, ne va della sopravvivenza del sindacato e condivido fino in fondo la sua frustrazione e la sua amarezza, la sua difficoltà a gestire i tempi dell’attività sindacale con quelli della produzione e quelli familiari, mi paiono davvero le stesse problematiche che vivevo io quando facevo sindacato di base e che ti “costringevano” prima o poi a fare scelte definitive. So, Paolo, di suonare polemico (anche tu lo suoni), ma, credimi, quello che voglio è una discussione vera, anche fra noi due (perché no?), ma che coinvolga il più possibile le persone, i colleghi, colleghe, compagni e compagne, sul futuro di questo nostro sindacato, perché sono ampie e potenti le forze esterne a questo nostro sindacato che stanno apertamente lavorando per negargli il futuro.
No Mario. Non è una risposta al tuo commento. E’ una riflessione scaturita nel tempo da una serie di commenti, interventi, dibattiti che – sommati tra loro – tratteggiano i punti che ho sunteggiato in maniera spigolosa, ma che rispecchia il mio punto di vista. Perché vedi, a me non interessa tanto confutare le opinioni altrui, ma piuttosto proporre le mie. Il mio punto di vista, appunto, che è abbastanza diverso (ad esempio, ma proprio solo ad esempio) dal tuo sulla questione giovani. Non necessariamente migliore o tantomeno “giusto”, ma sicuramente diverso. In ogni caso, visto che me lo chiedi, faccio coming out e confesso che il mio approccio al sindacato non è stato legato al fervore ideologico, ma al fatto di aver incontrato in filiale alcuni sindacalisti che passavano a parlare con i colleghi, che sono stati in grado di parlare con me e, – fondamentale – di ascoltarmi. Mi fu prospettato lavoro, tanto e duro. Ma mi è stata anche prospettata la sensazione di poter spendere i miei talenti (tanti o pochi che fossero). Di poter incidere, almeno un po’, sulla realtà. Di poter provare a fare la differenza. Per pochi e a partire dal mio piccolo ambito ristretto, ma di provare comunque a farla. Io ho collaborato con il sindacato per parecchi anni come delegato di filiale, prima di diventare RSA. E il lavoro sindacale in quegli anni (tanti, davvero tanti, almeno 7 od 8) lo facevo esclusivamente la sera e talvolta di notte. So molto bene che cosa è la gavetta e so altrettanto bene che cosa è il lavoro volontario. Come lo sanno tantissimi giovani che oggi di volontariato ne fanno e molto di più di come si faceva una volta. Ma lo fanno altrove, rispetto al sindacato.
Sai com’è… dicono che gli esseri umani tendano a riproporre gli schemi che hanno vissuto. A me è toccato un processo di coinvolgimento e sono portato a pensare di riproporlo. E se qualcuno è riuscito a coinvolgermi, mi chiedo se fossi io quello molto in gamba, o se invece, uno tra i tanti (probabilmente anche un po’ sotto la media), non abbia avuto la fortuna di incrociare persone, strutture, motivazioni favorevoli. Almeno per avvicinarsi. Poi certo proseguire (come, con quali successi e fallimenti) dipende sempre dal singolo. Dal singolo appunto. Non da una generazione collettivamente bollata come costituta da imbelli. Troppo comodo e troppo autoindulgente, secondo me, pensare che tutta una generazione non capisca un accidente, sia fatta da bamboccioni e così via.
E alla fine, non è neanche una questione se sia giusto o sbagliato aspettare che “i bambini vengano a noi” o se invece si debba andare ad adescarli al parco con le caramelle… Credo che prima di analizzare che cosa è meglio, occorra sempre interrogarsi su cosa è possibile (e talvolta necessario). Uno dei vari sindacalisti di cui sopra, con cui ho parlato e che mi ha ascoltato (ora felice pensionato), era solito dire: “il meglio è nemico del bene…”
Credo insomma che se una organizzazione vuole sopravvivere come tale, deve trovare soluzioni organizzative (appunto) per il bene comune che in qualche modo vengano prima (anche e solo un po’, per carità) del bene dei singoli che già ci sono.
Perché altrimenti il futuro ce lo neghiamo da soli, prima e meglio di come sarebbe in grado di fare qualsiasi nostro “nemico”… 🙂
Io sono uno di quelli che viene definito un giovane, magari non più anagraficamente, ma di certo per anzianità nel sindacato (un anno e mezzo circa). E sono uno di quelli che è andato a “bussare”, probabilmente nel momento più complicato. La prima considerazione che mi viene in mente è sulle motivazioni che possano indurre un “giovane” ad intraprendere l’attività sindacale, e devo dire che in questo Paolo ha descritto in modo preciso ciò che è stato anche per me, e cioè la sensazione di poter esprimere me stesso ed inseguire uno scopo, magari tentando nel mio piccolo di dare un contributo. E la consapevolezza di poterlo fare meglio da sindacalista che da bancario.
Sul ricambio generazionale poi, non mi sento un “rottamatore”, banalmente credo che come in tutti gli ambiti ci siano “vecchi” che hanno molto da dare e “giovani” che invece da dare hanno molto meno. Il problema è capire se e come sia possibile comunicare cosa vuol dire fare sindacato, prima di tutto ai giovani, e come e perché possa essere un’esperienza appagante e coinvolgente e che tutto sommato può dare delle soddisfazioni enormi, non fosse altro che per il rapporto sociale che si instaura con le persone. Che poi chi voglia partecipare sia “vecchio” o “giovane” poco importa, nella mia visione delle cose, l’importante è essere mossi dalle giuste motivazioni.
Il resto dipende da noi, il fatto di ritagliarsi uno spazio, con tutte le responsabilità che questo comporta, non credo possa dipendere dalle decisioni dei “vecchi”, o essere ostacolato dalla Fornero o da chi per lei. Credo che il cambiamento debba partire prima di tutto dalle idee, e dalla nostra (di tutti) capacità di vivere il tempo che viviamo e di trovare il modo di innestare queste idee nel tempo che viviamo! Se poi un’organizzazione riesce a trovare soluzioni organizzative… e vuole proprio essere un gioco di parole 😉
Paolo, stavo rispondendoti, ma non credo sia utile farlo qui. Preferirei, se sei d’accordo, che ci parlassimo e forse ci capiremmo.
Come ha scritto qualcuno milioni di parole fa, la satira fa sempre bene: a me l’intervento di Crozza ha fatto ridere, tristemente. E devo dire che un pochino ha pure ragione: sicuramente una consistente fetta di sindacalisti (e non parlo dei sindacalisti di base, ma della classe dirigente, Camusso e Landini compresi)parla una lingua antica, impolverata, che sicuramente non arriva alla maggior parte dei lavoratori.
Ma nonostante questo, io e la mia giovane età abbiamo bussato alle porte del sindacato: e non soltanto mi è stato aperto, ma “i grandi vecchi” hanno permesso, a me come ad altri miei compagni di viaggio, di partecipare attivamente, di propormi per ruoli anche di responsabilità, che mi assorbono certamente in termini di tempo personale, ma che mi danno anche tante soddisfazioni!
A parer mio, il vero problema del sindacato è che probabilmente è stato troppo ancorato ad una stagione di lotte passate ormai, che hanno visto la conquista e il mantenimento di diritti sacrosanti per chi, appunto, un lavoro ce lo aveva. Mi spiego meglio: non si è accorto della sacca di precari, lavoratori atipici, miriadi di contratti a breve/brevissimo tempo che mano a mano prosperavano, nell’ indifferenza collettiva. E poi si è dimenticato dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro, di quei trentenni come me che, per fortuna, un lavoro a tempo indeterminato ce l’hanno, e pure in banca! ma che non hanno gli stessi trattamenti, soprattutto economici e previdenziali, di colleghi con maggiore anzianità.
A tutte e due le cose, come alla maggior parte delle cose della vita, si può rimediare: a livello più generale, per iniziare ad occuparsi di chi abbiamo dimenticato e lasciato indietro; nel nostro settore, per iniziare un ragionamento che davvero riparta da noi, per cercare di riportare più equità nei trattamenti, senza arrivare ad uno scontro generazionale, ma consapevoli del fatto che qualcosa deve essere fatto per diminuire questa forbice.
alla fine non dimentichiamo tutti che la forbice torna ad essere quella classica tra chi ha troppo e chi ha troppo poco! (non quella generazionale,etnica, di genere ecc. anche se talvolta in apparenza talvolta sembrano coincidere ad un occhio poco attento e poco critico)
chi propugna altre differenze, a mio avviso, lo fa per allontanare l’attenzione e nascondere il solito vero problema( chiaramente mi riferisco a coloro che comunicano alle masse non a chi posta commenti in questa sede….)
la storia è piena di episodi di questo tipo, alcuni con conseguenze gravissime, che però si sono sviluppate quando il problema è diventato preda dell’indifferenza anche della maggior parte delle masse!
come si diceva il sonno della ragione genera mostri!
una sana discussione è necessaria sacrosanta benvenuta e sintomo di equilibrio e vitalità sociale!
Bene, in fin dei conti un po’ siamo riusciti a discutere. Tra noi e pubblicamente. Ovviamente non ho alcuna preclusione a discutere in privato e di persona con chiunque vorrà farlo, ma tutto sommato sono contento di averlo fatto qui e di continuare a farlo. Perché alla fine non credo che sia così importante che io mi capisca con Mario, Riccardo o Enrichetta in quanto individui. Io, citando una battuta di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, mi sento molto come quel personaggio un po’ tonto che diceva di sé: “Mongo è solo una pedina nel gioco della vita”. E che una pedina si capisca con un altra pedina è meglio che se non ci si capisce, ma non fa fare molta strada alla comunità. Credo piuttosto che se i vari Mongo possono discutere tra loro, in maniera più allargata e trasparente possibile, confrontarsi e anche scontrarsi, allora, alla fine, tutti avranno fatto un passo in avanti. Anche se avranno mantenuto le loro posizioni. Perché non è detto che per forza una discussione debba portare al fatto che uno abbia ragione e l’altro torto. E nemmeno necessariamente alla costruzione di una “sintesi”. C’è chi sostiene (Sennet nel suo saggio su rituali, piaceri e politiche della collaborazione, ad esempio) il valore del confronto non dialettico…
Proprio per questo ho molto apprezzato l’ultimo intervento di Alberto. Mi ha sollecitato alcune riflessioni. Voglio solo meditarle un minimo, e ve le proporrò al più presto
Allora… arieccomi.
Secondo me la forbice in assoluto è tra ha chi ha troppo e chi ha troppo poco, ma con alcune varianti della versione “classica”.
Ad esempio scordiamoci per un attimo chi il lavoro non ce l’ha (e non si accettano – almeno non completamente – battute sul fatto che il sindacato lo fa abitualmente ;-)).
E scordiamoci anche di quelli che ce l’hanno precario.
Occupiamoci del nostro settore o anche solo del nostro gruppo. Tutti tempi indeterminati (al 98%), tutti con uno stipendio più che dignitoso, tutti con un orario abbondantemente sotto il limite delle 40 ore settimanali, tutti con una prospettiva di stabilità del proprio posto di lavoro. Eppure, grattando appena un po’, di differenze ne emergono, eccome. Tra chi ha 12 scatti di anzianità e chi 8, tra chi ha (avuto) l’automatismo a Capo Ufficio dopo 11 anni e chi dopo 32, tra chi ha varie indennità di anzianità e chi no, tra chi ha il 7% di previdenza integrativa e chi il 2 e così via. Incidentalmente tutte cose che fanno sì che il ripristino dei parametri di calcolo del TFR e della Previdenza Integrativa come da CCNL precedente interessino molto (ma molto molto)di più i primi che i secondi dell’elenco precedente. Ed ovviamente inutile rimarcare che i primi sono i lavoratori più anziani e i secondi gli assunti degli ultimi anni. Ora, non so se i primi hanno troppo, ma certamente i secondi hanno troppo poco, e certamente è una forbice generazionale. Questo ovviamente in una prospettiva circoscritta.
Perché se invece consideriamo il lavoratore di Intesa Sanpaolo (di qualunque età, mansione e provenienza) e lo rapportiamo con un precario di qualunque azienda, età e mansione, o – ancora peggio – con un disoccupato allora le distanza tra i nostri colleghi tendono a colmarsi, mentre quelle con questi altri soggetti appaiono vertiginose. Peraltro, anche tra un precario e un disoccupato le distanze sono abissali…
Le contraddizioni sono enormi, le analisi complesse, le possibili soluzioni difficilissime. Non c’è posto in un solo post (perdonatemi) per tutto questo. Ma credo che “spacchettando” gli argomenti potrebbero venirne “pezzi” di ragionamento anche non banali…
Chissà se qualcuno ci sta…